/ PRESENTATION

LIQUID CRYSTAL
Moses & Taps ™

Testo di Vittorio Parisi

OFF THE GRID
La storia dei graffiti è legata a doppio filo all’immagine di una finestra rotta.
Lo è almeno da quando, nel 1982, i sociologi americani James Q. Wilson e George L. Kelling formularono e diffusero la teoria secondo cui i segni visibili di disordine e incuria – una finestra rotta o un graffito, per l’appunto – finiscano inevitabilmente con l’incoraggiare comportamenti antisociali se non veri e propri crimini, poiché segni inequivocabili di mancanza di ordine e assenza di leggi.
Oggi ampiamente messa in discussione – benché ancora sostenuta da certe associazioni per il decoro urbano e da certi amministratori aspiranti sceriffi – la broken windows theory ispirò una delle più aspre e violente campagne di repressione dei graffiti, promossa nel 1990 da Rudolph Giuliani allora sindaco di New York, e conosciuta col nome di zero tolerance, che di fatto mise la parola fine all’epoca d’oro del writing newyorchese, quello dei Dondi White e dei Phase2, delle Lady Pink e dei Rammellzee.
Se i graffiti continuano anche oggi ad essere intesi come una specie di phármakon rispetto al principio del decoro urbano – e cioè al tempo stesso un veleno o un antidoto, a seconda di come la si voglia vedere – lo dobbiamo anche e soprattutto a questa immagine. Ma se provassimo per una volta ad allentare la trama di quel doppio filo e di questa narrazione, e a pensare a una nuova metafora che sappia dirci qualcosa di più, o qualcosa di nuovo, sul cammino intrapreso dal fenomeno dopo New York?
Tra gli artisti-vandali che di quel post sono gli assoluti protagonisti, MOSES & TAPS™ occupano un ruolo pari a quello di pochissimi altri, e anzi incarnano il punto di non ritorno a partire dal quale il writing, osservando retrospettivamente la propria storia, ha iniziato a vandalizzare sé stesso. Chi conosce il percorso del duo di Amburgo sa che non si tratta di un paradosso, ma di un vero e proprio programma, quasi un manifesto che passa da sfide impossibili e da violazioni dadaiste delle stesse regole del writing. Si pensi al progetto INTERNATIONAL TOPSPRAYER™, con cui a partire dal 2008 MOSES & TAPS™ hanno dipinto 1000 treni in 1000 giorni scambiandosi le rispettive tag; o ancora al progetto SPLASH™, iniziato nel 2010 e nel quale, per mezzo della perforazione della bomboletta spray, le tag hanno finito col dissolversi del tutto, divenendo grandi chiazze astratte.
Viene naturale chiedersi se non siano proprio artisti come MOSES & TAPS™ a poter suggerire una nuova immagine, capace di simboleggiare meglio cosa sia il writing oggi, oltre a tutto quanto è già stato e – forse – sarà sempre.
Questa mostra sembra fornirci uno spunto: e se la finestra rotta lasciasse invece il posto a uno schermo rotto? L’indizio viene dal titolo, Liquid Crystal, ma soprattutto dalle opere esposte: le macchie colorate e non uniformi della serie SPLASH™ si trovano qui improvvisamente sovrapposte o giustapposte a reticoli e a pattern regolari, mutuati dalle tipografie digitali, così da comporre dei dipinti che vogliono emulare il meccanismo di un LCD rotto o malfunzionante.
In uno schermo a cristalli liquidi, questi ultimi si muovono tra due strati trasparenti di elettrodi che, disciplinati da un reticolo, determinano l’immagine che apparirà sullo schermo. Quando lo schermo si rompe, i cristalli liquidi esondano dal reticolo e finiscono con il generare forme inattese e criptiche. È anche un po’ quello che accade nei graffiti: anch’essi, a loro modo, esondano da quel fitto reticolo di regole scritte e non scritte del comune vivere urbano, invadendo simbolicamente e esteticamente gli spazi, e generando segni – le tag – talvolta così criptici da risultare illeggibili.
Ma quella di MOSES & TAPS™ è un’autentica mise-en-abyme e, ancora una volta, essa mira a infrangere un secondo reticolo di regole scritte e non scritte: quelle del writing stesso, secondo le quali non si potrebbe prescindere dal lettering e dalla sua sovranità. Una volta spezzato quel vincolo, al writer non rimane – scusate se è poco – che sperimentare l’invasione della pura forma.
Se la storia dei graffiti è stata a lungo una storia di finestre rotte, oggi sappiamo che essa è non meno una storia di schermi rotti. Di display essa è satura, letteralmente: da quelli che affollano le stazioni dei treni fin dagli anni Settanta, agli smartphone che ci consentono oggi di fotografare i graffiti e di scorrerne quotidianamente le immagini a centinaia, gli schermi a cristalli liquidi sono una specie di MacGuffin, un oggetto che, pur sembrandoci accessorio, accompagna e trasforma la trama di questo film che dura da cinquant’anni.
Parlare di cinema non è, d’altra parte, fuori luogo: anche per la settima arte lo schermo ha, oggi, sempre più la configurazione di un display, che non quella dell’écran-fenêtre che André Bazin prese in prestito dalla “finestra aperta sul mondo” di Leon Battista Alberti. Se quest’ultimo permetteva al regista di aprire, al pari di un pittore, una breccia nella realtà creandone un’altra destinata almeno idealmente a durare per sempre, il display è uno spazio nel quale le immagini, fisse o in movimento, si danno fin da subito come fluttuanti e effimere – si pensi all’uso di glitch e pop-up nei cosiddetti screenlife movies.
La natura sempre più effimera delle immagini è, d’altronde, parte inalienabile del nostro quotidiano: esse raccontano sempre meno e esercitano sempre più funzione di semplici informazioni, la cui durata è limitata nel tempo: questo principio vale per le immagini che scorrono freneticamente sugli schermi dei nostri cellulari, quelle che ci indicano gli orari di un treno, o quelle che il writer imprime sulla superficie di quel treno o di un muro. Se il writing va inserito a pieno titolo nella storia della pittura, è proprio perché esso ha ribaltato il principio albertiano più di qualunque altra pratica pittorica germinata nel caos postmodernista. Un caos in cui gli edifici – da Times Square alle megalopoli asiatiche – non hanno più finestre ma schermi e insegne luminose, e in cui la pittura non può più darsi come finestra ma come display, cioè come spazio di fluttuazione e infinita manipolazione.
Tanto nei loro interventi sui treni, quanto nei loro lavori su tela, MOSES & TAPS™continuano a incarnare più di chiunque altro questo stadio in cui il writing si manipola e si lascia manipolare, si auto-deride e auto-vandalizza senza fine. In altre parole, esso prende vertiginosamente coscienza di sé e della propria storia per poi rompere i suoi stessi schemi e sfuggire ai suoi stessi reticoli. Paradossalmente, è questa la sola scappatoia possibile affinché il writing rimanga fedele a sé stesso, assieme pratica pienamente vandalica e pienamente pittorica.

LIQUID CRYSTAL
Moses & Taps ™

Text by Vittorio Parisi

OFF THE GRID
The story of graffiti is tied hand in glove with the image of a broken window.
It has been so at least since 1982, when American sociologists James Wilson and George Kelling formulated and diffused the theory according to which the visible signs of disorder and negligence – a broken window or a piece of graffiti for ex.– inevitably lead to the encouragement of antisocial behaviour if not even real crimes, because signs of a lack of order and an absence of laws.
Widely disputed today – though still endorsed by certain urban decorum associations and wannabe-sheriff administrators – the broken window theory inspired one of the most scathing and violent campaign against graffiti; endorsed in 1990 by then New York mayor Rudolph Giuliani, and known as zero tolerance, it put an end to the golden age of New York writings of the likes of Dondi White and Phase2, Lady Pink and Rammellzee.
If graffiti today continues to be considered as a sort of phármakon – a poison or an antidote at the same time, depending on the point of view – when in conversation with the principle of urban decorum, we owe it too and above all to this image. But what if we were to loosen that glove and this narrative for once, and think of a new metaphor able to tell us something more, something new, about the journey of the phenomenon after New York?
Among the artists-vandals who are absolute protagonists of that after, MOSES & TAPS™ take a spot like very few others; in fact, they embody the point of no return after which the writing, retrospectively observing its own story, has started to vandalise itself. Those familiar with the journey of the Hamburg duo know that it isn!t a paradox, but an actual plan, almost a manifest that goes through impossible challenges and dadaist violations of writing very own rules.
Thinking of the INTERNATIONAL TOPSPRAYER™ project, that since 2008 saw MOSES & TAPS™ paint a thousand trains in a thousand days swapping their respective tags, or again the SPLASH™ project, begun in 2010, in which their respective tags completely dissolved through a perforation of the spray can that turned them into big abstract stains.
It is natural to ask if it isn’t artists like MOSES & TAPS™ who might suggest a new image that can better represent what writing is today, as well as everything it has already been and – perhaps – will always be.
This exhibition seems to provide us food for thought: what if the broken window were to make way for a broken screen? It does so right from its title, Liquid Crystal, but even more so from the artworks on display: the SPLASH™ series of irregular coloured splashes, here find themselves superimposed or juxtaposed to lattice and regular pattern borrowed from digital typographies, composing paintings aiming to emulate the mechanism of a broken or malfunctioning LCD.
In a liquid crystal display, these move between two transparent layers of electrodes that, disciplined by a grid, determine the image that will appear on the screen. When this breaks, the liquid crystals flood the grid and end up generating unexpected and cryptic shapes. Kind of what happens with the graffiti: they too, in their own way, flood that dense lattice of written and unwritten rules of urban common living, symbolically and aesthetically invading spaces, and generating signs – the tags – at times so cryptic, they appear illegible.
But this is MOSES & TAPS™ authentic mise en abyme and, once again, it aims at breaking a second layer of written and unwritten rules: those of writing itself, according to which it is not possible to disregard the lettering and its supremacy. Once that constraint is broken, all that remains to the writer is to experiment the invasion of pure form.
If the story of graffiti has for a long time been the story of broken windows, now we know that it isn’t any less a story of broken screens. It is saturated with displays, literally: from those who crowd train stations since the Seventies, the smartphones that today enable us to photograph graffiti and to daily scroll through hundreds of images, liquid crystal screens are a kind of McGuffin, and object that, though it appears to be accessory, accompanies and transforms the plot of this movie that has been rolling for fifty years.
After all, speaking of film isn’t inappropriate: for the seventh art too, the screen today has more and more the configuration of a display rather than that of the écran-fenétre André Bazin borrowed from Leon Battista Alberti’s picture as ‘an open window onto the world’. If the latter allowed the director to open, like a painter, a breach in reality, creating another meant to at least ideally last forever, the display is a space in which the images, fixed or in movement, result ephemeral - think of the use of glitch and pop-up in the so-called screenlife movies.
The ever more ephemeral nature of images is an inalienable part of our daily lives. They tell less and function more and more as simple information, whose duration is limited in time: this principle applies for the images that scroll frantically on our smartphones screens, the images that display train times, or the images the writer imprint on the surface of that train or wall. If writing is to take its rightful place in the history of painting, it is precisely because it has overturned the albertian principle more than any other pictorial practice germinated in the post-modernist chaos. In this chaos, buildings – from Time Square to Asian megalopolis – no longer have windows but screens and neon signs, and painting can no longer give itself as window but display, meaning a space for fluctuation and endless manipulation.
On trains as much as on canvas, MOSES & TAPS™ keep embodying more than anyone else this stage at which writing is being manipulated and lets itself be so, derides itself and vandalises itself. In other words, it becomes vertiginously aware of itself and of its story only to then break its own beliefs, escape its own laces, and, because of this, build its only possible way out of it in order to remain true to itself and together a wholly vandalistic and wholly pictorial practice.